Abbiamo deciso di tradurre in italiano alcuni articoli usciti per la rivista The Quietus. La prima traduzione è una parte dell’introduzione scritta dalla rivista per lanciare una serie di inchieste sulla connessione tra neonazismo e sottoculture.
Abbiamo tralasciato la prima parte (una panoramica di taglio storico delle connessioni tra sottoculture e nazi-fascismo) perché per quanto ci riguarda è storia nota (e ci pesa il culo), ma potete leggerla, chiaramente in inglese, a questo indirizzo.
La seconda parte dell’articolo, che abbiamo al contrario tradotto e trovate qui sotto, definisce l’intento originale (e politico) della rivista: far luce su come la presenza dei nazisti in alcune scene musicali sia stata normalizzata e perché non solo gli elementi esplicitamente reazionari presenti nelle stesse ma anche una parte di pubblico che si ritiene “apolitica”, supporta e favorisce le istanze razziste, anti-LGBTQI e sessiste all’interno dei propri spazi.
Naturalmente se l’intento di The Quietus si ferma alla denuncia, un approccio appunto giornalistico, il nostro obiettivo è rafforzare la nostra conoscenza del nemico per opporre ai razzisti una forza capace di spezzare le catene che imbrigliano certe sottoculture a fenomeni consumistici e di mercato, più o meno inaccessibili a persone che non si conformano al modello di comunità ideale dei fascisti e dei nazisti.

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Speriamo di scoprire perché alcune persone pensano sia accettabile indossare in pubblico una maglia di Burzum o dei Death in June quando non sognerebbero mai di indossare gli slogan di un’organizzazione di nazionalisti bianchi o di un partito di estrema destra; e speriamo di capire perché possa essere stato OK per Siouxsie Sioux indossare nel 1976 una fascia con una svastica sopra, quando invece Christine and the Queens probabilmente non se la caverebbero ora (oppure, presumibilmente, non lo farebbe nemmeno).

Niente paura, questa non è la nascita di una nuova e conservativa era del Quietus. Non cadremo nei meccanismi di pensiero che sostengono che l’artista sia responsabile delle azioni delle/dei proprie/propri fan, o che la partecipazione all’interno di scene musicali “negative” e misantrope portino le persone a perpetrare azioni violente. Le atrocità del “mondo vero” sono il risultato di una moltitudine di fattori socio-economici e psicologici correlati tra loro – di cui la cultura, ovviamente, gioca un ruolo nel definire e influenzare gli eventi, normalizzare certi atteggiamenti distruttivi e convinzioni per esempio, ma sappiamo da anni di esperienza che ascoltare heavy metal non ti renda un omicida satanista, che ascoltare Marilyn Manson non abbia causato il massacro della Columbine School, e che rap, grime e drill non siano la causa della violenza tra gang.

Ma che responsabilità dovremmo dare alle nostre scene musicali e culturali? Che responsabilità hanno le/gli artist di “controllare” la loro fanbase? Difetti di personalità, comportamenti problematici o convinzioni politiche di un artista sono delle ragioni sufficienti per non esplorare nemmeno il loro lavoro?

Si può affermare che le scene musicali e le comunità artistiche si autogestiscano, che la maggior parte delle piccole scene underground e sperimentali sono composte da persone ragionevoli, che le persone di merda vengono di solito buttate fuori semplicemente perché nessun vuole star loro appresso.
Seguendo questa logica, ogni tentativo di ingresso “politico”, per esempio, di qualche elemento di estrema destra, verrebbe semplicemente escluso o ignorato. Purtroppo, però, la storia ha dimostrato che questa sia una visione romantica e idealizzata dell’underground culturale e che le persone di merda, in particolar modo quelle con band o un seguito, sono sempre tra noi, insieme allo stesso bigottismo e la stessa ignoranza che affliggono iel mondo intero.

Il nostro compito non è facile. In un momento in cui la nozione di verità oggettiva viene quotidianamente messa in dubbio e la pratica orwelliana di “bipensiero” sta diventando una realtà quotidiana, separare l’arte “difficile” o “provocante” da sentimenti di estrema destra diventa un compito ancora più difficile. La retorica xenofoba dell’estrema destra filtra dal mainstream all’underground, cosi come idee e stilemi che nascono “sepolti” influenzano l’atmosfera culturale e politica sovrastanti.

Boyd Rice e Douglas Pearce (Death in June) potrebbero venir liquidati come dei burloni hipster che usano metodi conflittuali, dadaisti o situazionisti per raggiungere i propri fini artistici, in parte perché l’audience della cultura underground – formata perlopiù da “brave persone” – trova difficile accettare che persone come loro si mescolino con persone come noi. Lo stesso miscuglio di ignoranza e negazione significa che indossare una maglia di Burzum o dei Death in June possa essere considerato un qualcosa di innocuo, una provocazione maliziosa della serie “più-edgy-di-te”, piuttosto che il risultato di una transazione economica che comporta l’offerta di capitale culturale ed economico verso persone le quali farebbero del male alla maggior parte di noi, se messe in condizioni propizie.

I tempi sono cambiati. Seguire il mito dell’innocua provocazione artistica in nome del libertarismo culturale significa semplicemente nutrire una bestia che eliminerebbe molte delle nostre libertà personali, sociali e culturali. In quanto fan della musica e persone che sostengono le culture underground in tutta la loro feroce complessità e affascinante diversità, abbiamo il dovere e l’imperativo di mettere in dubbio, rivalutare e, quando necessario, ritenere responsabili le/gli artist che ascoltiamo e supportiamo di ciò che fanno.

Dylan Miller